La voce di NORISK SCF – Le sfide del “Trump trade”: mercati, dazi e un futuro incerto

Sfide del "Trump trade": mercati, dazi e un futuro incerto

La voce di NORISK SCF – Le sfide del “Trump trade”: mercati, dazi e un futuro incerto

Passata la “sbornia elettorale” dove l’America con il  “Trump trade” ha ulteriormente migliorato la propria performance in borsa, la settimana passata, ha visto correzioni generalizzate.

Ci si incomincia a porre delle domande del tipo:

1)   Le politiche di Trump aumenteranno di nuovo l’inflazione?

2)   Con un dollaro così forte come si potrà migliorare la bilancia commerciale?

3)   Con dazi generalizzati realmente i consumatori americani staranno meglio o pagheranno tutto più caro? (banale esempio: IPhone che è un successo mondiale è fabbricato in Cina)

4)   Che ne sarà del deficit e del debito pubblico US?

5)   Infine la Fed smetterà più rapidamente delle attese di tagliare i tassi ufficiali per bilanciare le politiche di Trump?

Alcune di queste problematiche sono trasversali e riguardano l’America indipendentemente dal colore politico, altre sono specifiche e “dipendono” da come Trump vorrà mettere in pratica concretamente le proprie strategie.

Quando sentiamo acriticamente sostenere che bisogna comprare più azioni americane, che il dollaro non può che rafforzarsi e che il debito pubblico US è il più solido al mondo diciamo delle ovvietà che non tengono però conto che non esistono pasti gratis all’infinito.

È troppo lontana l’epoca del 2000-2010 ma in quel decennio la borsa US è andata male e il dollaro aveva subito una forte svalutazione contro euro.

La scorsa settimana sul Sole 24 ore ho letto questa tabella sui conti pubblici americani.

Tabella che confronta i dati macroeconomici tra la prima elezione di Trump (2016) e la seconda (2024), con dettagli su PIL, inflazione, tasso di disoccupazione, debito pubblico e altri indicatori chiave.

Vale la pena notare come nel 2016 la spesa per gli interessi sul debito fosse di 240 miliardi, mentre oggi, 8 anni dopo, 870 miliardi.

Inoltre allora i tassi erano allo 0,5%, oggi sono al 4,5%. Esistono delle enormi differenze che non vanno dimenticate da chi non “consideri il rischio America”.

Grafico che mostra lo spread tra il tasso dei titoli di stato a 2 anni degli Stati Uniti e dell'Unione Europea, con una differenza di oltre 2%, una variazione significativa su scadenze brevi e a basso rischio

Il grafico che precede ci mostra lo spread tra il 2Y US verso il 2Y UE (Germania): il primo rende il 4,3% contro un misero 2,11% del secondo. Una differenza di più del 2% è veramente enorme su scadenze così brevi e free risk.

Anche lo scostamento tra gli indici azionari delle due aree è notevole.

Confronto del P/E ratio tra l'S&P 500 e l'Eurostoxx 50 negli ultimi 5 anni, con l'S&P 500 che attualmente tratta a quasi 27 volte gli utili rispetto a 14 volte per l'Eurostoxx 50

Guardando al grafico dei P/E negli ultimi 5 anni si vede come lo S&P 500 tratti a quasi 27 volte gli utili contro un modesto 14 X dell’indice Eurostoxx 50.

Quanti anni ancora la borsa americana può crescere di più di tutte le altre aree del mondo con multipli tirati e con politiche attese che, al netto degli interventi di taglio delle tasse, potrebbero non migliorare i conti delle aziende?

Ricordiamoci che molti dei profitti generati dalle multinazionali US sono generati all’estero e se rimpatriati “perdono” per colpa delle differenze cambio in caso di dollaro in ulteriore rafforzamento.

Inoltre come detto prima molte società fanno produrre all’estero (sempre tornando al caso IPhone). Vorrei vedere con dazi al 60% imposti alla Cina chi comprerebbe ancora le quantità che abbiamo visto sin qui di beni “americani”.

Di seguito il grafico dei P/E dello S&P 500 che mostrano come l’indice sia “tirato”.

Grafico del P/E dell'S&P 500 che mostra come l'indice sia attualmente sopra la media

Per concludere l’asset che ha stornato di più post elezioni: l’oro.

Correlazione tra il calo del prezzo dell'oro e il rafforzamento del dollaro contro l'euro nel periodo ottobre-novembre 2024.

Si vede nettamente come il calo del prezzo dell’oro sia correlato con il rafforzamento del dollaro contro euro.

Sale il dollaro e scende l’oro.

Alla fine non occorre dare troppa importanza ai movimenti di breve che hanno più a che fare con il trading e con le aspettative piuttosto che con la costruzione di un PF equilibrato di lungo termine.

Resta però una considerazione conclusiva: non si può stare fuori da US perché è il mercato che contribuisce maggiormente a qualsiasi strategia d’investimento. Allo stesso tempo in America ci sono i titoli di stato maggiormente redditizi corretti per il rischio.

Ma non è qualcosa di “nuovo”, ma qualcosa che è già nei prezzi: se il 2025 sarà un anno positivo dipenderà esclusivamente dalla crescita degli utili e non più di tanto dalle politiche presidenziali.

La politica non incide veramente sui mercati salvo su singoli settori qualora scelte di allocazione dei soldi pubblici possano comportare benefici su parti del mercato rispetto ad altre (esempio classico: energie rinnovabili vs combustibili fossili).

Parlando di indici “core” come lo S&P 500 occorre ricordare, ancora una volta, come sia salito sia durante l’epoca dei democratici sia dei repubblicani.

Andrea Boffa
andrea.boffa@norisk.it